Sentenza Vlahov v. Croazia: un esempio di come la Corte EDU interpreta correttamente il suo ruolo di custode dei principi della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo
di C. Grassi -
1. La vicenda
Il caso esaminato dalla Corte di Strasburgo (deciso con la sentenza della Prima Sezione, 5 maggio 2022, sul ricorso n. 31163/13) su istanza del dirigente sindacale Goran Vlahov, condannato penalmente per non avere accettato le domande di adesione di alcuni colleghi al sindacato di appartenenza merita certamente un commento.
Il ricorrente era rappresentante della locale sezione del CSH, un sindacato dei doganieri croati, a Sebenico. Ai primi di gennaio del 2007, quindici suoi colleghi facevano domanda di iscrizione al sindacato, domanda che egli respingeva allo scopo, anche, di «impedire una manovra del loro datore di lavoro di far entrare un certo numero» di iscritti vicini alle sue posizioni, con lo scopo di mutare l’equilibrio di forze all’interno della struttura sindacale.
Nel corso della sentenza si evidenzierà anche che il ricorrente aveva pubblicamente motivato la sua decisione nell’intento di attendere lo svolgimento della prossima assemblea annuale del sindacato, tanto più che i lavoratori che avevano avanzato domanda di adesione erano già stati aderenti del CSH, dal quale si erano precedentemente allontanati.
La vicenda si inseriva anche in uno stato di conflittualità tra il ricorrente e il presidente del CSH, sulla linea del sindacato. Quest’ultimo allora interveniva e iscriveva d’ufficio i quindici esclusi e nella successiva assemblea straordinaria degli aderenti, compresi tra loro i nuovi membri inseriti dal presidente, il 7 marzo 2007, con una votazione pressoché unitaria, rimuovevano Goran Vlahov dalla sua carica nominando un altro responsabile.
Il 10 maggio 2007, a due mesi di distanza quindi, la sezione del CHS presentava denuncia alla procura municipale di Sebenico per violazione dell’art. 109 del Codice penale nazionale, secondo il quale «chi nega o limita la libertà di associazione dei cittadini in (…) sindacati (…) è punito con la reclusione [per un periodo di] non più di un anno».
La locale procura disponeva le indagini e la polizia giudiziaria riferiva che dalla documentazione acquisita (punto 12, sentenza) sarebbe emerso che il ricorrente aveva effettivamente commesso il reato per il quale era stato denunciato.
Veniva quindi incaricato un giudice istruttore, il quale aveva sentito sia i quindici membri la cui iscrizione era stata rifiutata che il presidente nazionale del CSH. Tutti avevano confermato come il ricorrente avesse agito al fine di preservare la sua carica, ritenuta essere in pericolo in ragione delle nuove ammissioni e che le norme dello statuto del CSH non prevedevano limiti alle adesioni al sindacato.
Sulla scorta di tali assunti, la procura incriminava il ricorrente e lo deferiva al Tribunale municipale il quale lo condannava, con un decreto penale, a tre mesi di reclusione, sospesi per un anno. Il decreto veniva impugnato avanti allo stesso tribunale e il ricorrente denunciava come l’istruttoria fosse stata incompleta, senza contradittorio e chiedeva che fossero ascoltati i suoi testimoni in merito ai motivi per i quali i quindici candidati esclusi avevano chiesto di essere ammessi nel CSH.
Il Tribunale municipale, all’esito dell’udienza del 23 settembre 2010, respingeva tutte le richieste del ricorrente e lo condannava a 4 mesi di reclusione, pena sospesa, oltre al pagamento delle spese. Con una stringata motivazione (punto 23 sentenza), il Tribunale riteneva che il comportamento del ricorrente fosse stato contrario allo Statuto del sindacato, alla costituzione e al diritto vigente, costituendo così violazione dell’art. 109 del Codice penale nazionale.
La sentenza veniva impugnata avanti alla Country court locale sostenendo che non sussisteva la fattispecie di cui all’art. 109, che andava interpretato nel senso che ai dipendenti doveva essere consentito di aderire o costituire altri sindacati nell’ambito del pluralismo sindacale e che dunque il suo comportamento non costituiva la fattispecie per la quale era stato condannato. Rinnovava la richiesta che fossero sentiti i testi da lui indicati al fine di chiarire i motivi della sua opposizione alla iscrizione degli esclusi.
In data 16 dicembre 2010 il Tribunale della contea ha rigettato l’appello condividendo la decisione del Tribunale municipale, ritenendo che «senza dubbio» il ricorrente aveva violato l’art. 109 e lo statuto del CSH e che bene aveva fatto il precedente giudice a non ammettere i testimoni indicati dal ricorrente.
Esito analogo aveva il ricorso alla Corte costituzionale presentato da Vlahov ribadendo le argomentazioni non esaminate dai primi due giudici ed esponendo che le loro decisioni comportavano che «chiunque avrebbe avuto il diritto di aderire a qualsiasi sindacato o altra associazione, indipendentemente dai desideri o dagli interessi dei membri esistenti del sindacato o dell’associazione» (sentenza, § 27).
2. La normativa in tema di libertà di associazione sindacale
Ai § da 29 a 43 della sentenza la Corte esamina la normativa nazionale, europea e internazionale in tema di libertà di sciopero.
Sintetizzando, quanto alla normativa croata, la Corte sottolinea, oltre al già citato art. 109 del codice penale, gli articoli 167 e 174 della legge sul lavoro (sentenza § 31) o quali, tra gli altri, garantiscono la libertà di associazione di costituzione di organizzazioni sindacali e che ognuna di queste deve avere uno Statuto che ne disciplina anche le modalità e le condizioni per l’adesione da parte dei lavoratori. L’art. 174, in particolare, prevede che lo statuto disciplini «(…) la procedura per l’accettazione e la cessazione e l’iscrizione (…)».
Lo statuto del CSH del 18 febbraio 1986 (sentenza § 32), dispone (sez. 10) che «Le persone alle dipendenze dell’Amministrazione delle dogane del Ministero delle Finanze possono diventare membri del sindacato e [devono] chiedere l’adesione su base volontaria … Si diventa membri del sindacato accettando lo Statuto e firmando il modulo di domanda di adesione, e [dopo] pagando la quota associativa prescritta per il mese in cui [lui o lei] si unisce al sindacato» e che (sez. 15) «L’entità chiave all’interno della struttura sindacale è la filiale locale del sindacato (…) Nel loro funzionamento, i rami locali del sindacato sono indipendenti» e che (sez. 16) «L’Assemblea è l’organo supremo di un ramo ed è composta da tutti i membri del ramo o dai loro rappresentanti scelti».
Vengono altresì richiamate le norme fondamentali dell’Oil in tema di libertà sindacale, tra le quali quelle della Convenzione 87 del 1948, la 151 del 1978 e la raccolta di decisioni del Comitato per libertà delle associazioni del 2018, §586, 589 e 606 (disponibile al sito www.ilo.org), dove si legge che (sentenza § 37) « Il Comitato per la libertà di associazione dell’OIL, istituito per esaminare le denunce di violazioni della libertà di associazione, ha ritenuto che la determinazione delle condizioni di ammissibilità all’adesione a un sindacato sia una questione che dovrebbe essere lasciata alla discrezione dello statuto sindacale e che le autorità pubbliche dovrebbero astenersi da qualsiasi intervento che possa compromettere l’esercizio di tale diritto. Inoltre, i lavoratori e le loro organizzazioni dovrebbero avere il diritto di eleggere i loro rappresentanti in piena libertà e questi ultimi dovrebbero avere il diritto di presentare reclami per loro conto». Inoltre. Al punto 38, si prevede che, pur applicandosi ai rappresentati sindacali le disposizioni di legge, queste ultime «non dovrebbero violare le garanzie fondamentali della libertà di associazione, né dovrebbero sanzionare attività che, conformemente ai principi della libertà di associazione, dovrebbero essere considerate attività sindacali legittime» e che (ibid, § 78-80 e 155) «Inoltre, le accuse di condotta criminale non dovrebbero essere utilizzate per molestare i sindacalisti a causa della loro attività sindacale».
La Corte richiama poi (§ 39 e 41) l’art. 5 della carta sociale europea e la Carta dei diritti fondamentali dell’unione europea che sanciscono il diritto all’adesione ed alla costituzione di libere associazioni sindacali.
3. Ammissibilità del reclamo
La Corte ritiene che il reclamo sia ammissibile (§44) e, inoltre, fondato nel merito in quanto basato sulla violazione dell’art. 11 della Convenzione che recita: «1. Tutti hanno il diritto (…) alla libertà di associazione con gli altri, compreso il diritto di formare e aderire a sindacati per la tutela dei propri interessi. 2. All’esercizio di tali diritti non sono imposte restrizioni diverse da quelle prescritte dalla legge e necessarie in una società democratica nell’interesse della sicurezza nazionale o della sicurezza pubblica, per la prevenzione di disordini o reati, per la protezione della salute o della morale o per la protezione dei diritti e delle libertà altrui. Il presente articolo non osta all’imposizione di restrizioni legittime all’esercizio di tali diritti da parte di membri delle forze armate, della polizia o dell’amministrazione dello Stato».
4. Fondatezza nel merito
Nella motivazione si riassumono in primo luogo le ragioni del reclamo (§ 45-51). Il ricorrente afferma che il suo rifiuto di accogliere le domande dei quindici aspiranti ad essere iscritti nel CSH era fondato sul fatto che gli interessi di cui erano portatori si presentavano in contrasto con quelli degli iscritti, che la decisione circa la loro ammissione spettava unicamente a lui e che la posizione del presidente nazionale del CSH era dovuta a un conflitto di interessi in quanto erano precedentemente stati avversari nell’elezione per la presidenza.
Essendo suo dovere tutelare l’autonomia del sindacato dal datore di lavoro e la tutela degli interessi degli aderenti, la procedura di approvazione della domanda di adesione di altri soggetti non poteva fermarsi a valutazione di natura formale, ma andava valutata secondo gli interessi del sindacato e dei suoi iscritti: da qui la necessità che la richiesta di adesione andasse valutata dalla assemblea che avrebbe dovuto tenersi di lì a poco.
La condanna inflittagli dai giudici croati era quindi arbitraria e sproporzionata e, comunque, le ragioni degli esclusi ben avrebbero potuto essere esaminate in sede giurisdizionale civile senza necessità di ricorrere allo strumento penale. Del resto, l’art. 109 del Codice penale croato tutelava unicamente il diritto di costituire associazioni sindacali e di aderirvi, punendo i colpevoli che impedissero l’esercizio tali diritti, giammai poteva riguardare la decisione di rifiutare l’iscrizione da parte del responsabile di un sindacato. Gli esclusi infatti erano rimasti liberi di aderire ad altra associazione o di costituirne una nuova.
Inoltre, i giudici nazionali avevano impedito al ricorrente di difendersi, non ammettendo i mezzi di prova da lui dedotti e non esaminando le sue giustificazioni.
Il Governo croato ha invece sostenuto che il ricorrente aveva violato le leggi e la costituzione e che i giudici nazionali avevano valutato tutti fatti rilevanti, rendendo una sentenza tutt’altro che irragionevole.
La Corte decide secondo i principi già stabiliti nei propri precedenti (sentenze Demir e Baykara, e Baykara c. Turchia [GC], n. 34503/97, CEDU 2008, §§ 109-11 e 119; Sindicatul “Păstorul cel Bun” c. Romania [GC], n. 2330/09, §§ 130-135, CEDU 2013; Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen (ASLEF) c. Regno Unito, n. 11002/05, §§ 23-24, 27 febbraio 2007), dove sono stati indicati «gli elementi costitutivi della libertà sindacale, compreso il diritto dei sindacati di elaborare le proprie regole e amministrare i propri affari, compresa l’appartenenza».
Sulla scorta di questi, la Corte ritiene che il rifiuto del ricorrente di ammettere l’iscrizione dei quindici lavoratori esclusi, che è al centro della questione controversa, andasse risolta sulla base delle regole interne del sindacato (§ 68).
Entrando nel merito dei fatti, rilevava che il ricorrente era il rappresentante legale della sezione di Sebenico del CSH e che il suo compito era quello di rappresentare il sindacato e tutelare gli interessi dei suoi aderenti, ai sensi degli artt.10 dello statuto e 10 del regolamento del CSH, nonché degli artt. 186 e 187 della legge sul lavoro croata, dai quali emergeva che gli esclusi e anche le altre strutture del sindacato potevano agire giudiziariamente in sede civile per ottenere la tutela dei diritti sindacali che si riteneva essere stati violati dal ricorrente. Ciò nonostante, nessuna azione di questo tipo è stata iniziata quando il ricorrente ha formalizzato la sua decisione di non accogliere le domande dei richiedenti l’iscrizione al CSH.
La condanna penale del ricorrente, in tale situazione induce la Corte a ritenere violato l’art. 11 della Convenzione, poiché ha costituito un’ingerenza nell’attività del sindacato.
Ciò chiarito, la Corte si pone allora il problema che l’ingerenza posta in essere risulterebbe specificamente prevista dall’ordinamento dello stato aderente alla Convenzione, la cui interpretazione è rimessa al giudice nazionale (sentenza Tsonev c. Bulgaria, n. 45963/99, § 45, 13 aprile 2006) e quindi il problema si sposta sulla valutazione se tale ingerenza, ai fini di non violare l’art. 11 e rendere legittima la valutazione della Corte EDU, «fosse o meno necessaria in una società democratica».
La Corte si chiede quindi in quale misura lo Stato può intervenire «per proteggere gli aspiranti sindacalisti dall’ostacolo del loro diritto ad associarsi», tenendo conto dei diritti del ricorrente e di quelli del sindacato dallo stesso all’epoca rappresentato, al fine di controllare le motivazioni per le quali intendevano associarsi (§ 58-62).
L’esame di competenza della Corte si snoda su due piani che riguardano l’interpretazione dell’art. 11 della Convenzione: il primo prende in considerazione l’insieme delle misure adottate dallo Stato per garantire la possibilità di associarsi, tenendo conto del suo margine di discrezionalità; il secondo non ammette «restrizioni che incidano sugli elementi essenziali della libertà sindacale, senza le quali tale libertà diverrebbe priva di sostanza».
I due piani non sono contraddittori tra loro, ma correlati: lo Stato contraente è, in linea di principio, libero di stabilire le condizioni più opportune per applicare l’art. 11, ma, allo stesso tempo, è tenuto a tenere presente i principi essenziali stabiliti dalla Corte sul punto (sentenza Demir e Bayakara, cit.).
In taluni casi i diritti di cui all’art. 11 meritano pari tutela (sentenza Sindacatul Pastorul cel Bun, cit. § 160), in altri, ad esempio il diritto di aderire a un’Organizzazione per la tutela dei propri interessi, non va interpretato nel senso che tale diritto prescinde da quello del sindacato in questione di valutare la richiesta di adesione secondo le regole del sindacato stesso (sentenza Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen, cit., § 39). Ciò «colpirebbe la sostanza stessa della libertà che è destinato a garantire» (sentenza Young, James e Webster c. Regno Unito, 13 agosto 1981, § 57, Serie A n. 44). Così come sarebbe contrario alla norma esercitare pressioni su una persona al fine di unirsi in associazione con altri che non condividono le sue opinioni (ibidem, mutatis mutandis), tanto nella misura in cui si tratti di un’associazione o di un sindacato privato ed indipendente dallo Stato e non si stia, ad esempio, «gestendo un accordo di negozio chiuso» (ibidem § 47, mutatis mutandis).
Lo Stato, in ogni caso, (Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen, cit. § 43) deve garantire un equilibrio «che garantisca un trattamento equo e corretto delle minoranze ed eviti qualsiasi abuso di posizione dominante», anche da parte dei sindacati. Nella sentenza citata la Corte, facendo riferimento alla sua giurisprudenza (sentenza Cheall c. Regno Unito, n. 10550/83, Comm. Dec. 13.5.85, D.R. 42, e Johanssen c. Norvegia, n. 13537/88, Comm. Dec. 7.5.90), ha stabilito che potrebbe ricorrere un abuso quanto l’esclusione o l’espulsione non è conforme alle norme sindacali stesse o quando le norme sono del tutto irragionevoli o arbitrarie ovvero, infine, qualora le conseguenze di tale comportamento hanno effetti di eccezionale gravità; inoltre anche nell’ipotesi di un trattamento discriminatorio, nei cui confronti lo Stato deve garantire misure efficaci di protezione, «può comportare violazione dell’art. 11 (Mutatis mutandis, sentenza Danilenkov e a. c. Russia, n.67336/2001, § 124, CEDU 2009)».
Il compito della Corte EDU, viene chiarito, non è quello di proporre una nuova valutazione della controversia, bensì di controllare se il potere giurisdizionale dello Stato membro è stato utilizzato correttamente. E tanto va fatto non solamente per verificare se il potere discrezionale è stato utilizzato in modo «ragionevole, attento ed in buona fede», ma anche al fine di verificare se l’ingerenza nell’ambito dell’attività sindacale, valutato il caso nel suo complesso, sia stata «proporzionata allo scopo legittimo perseguito» e se la motivazione addotta dal giudice nazionale per giustificare l’ingerenza denunciata risulti «pertinente e sufficiente».
In conclusione, compito della Corte è verificare che i giudici nazionali abbiano applicato norme conformi ai principi stabiliti dalla Convenzione e che la decisione risulti frutto di una valutazione accettabile dei fatti pertinenti (sentenza Zhadanov e a. c. Russia, n. 12200/08 e altre 2, § 141, 16 luglio 2019, con ulteriori riferimenti).
Applicando tali principi al caso specifico (§ 63-74), la Corte rileva che il sindacato ove operava il ricorrente era un’organizzazione libera, indipendente e autonoma che tutelava gli interessi dei lavoratori doganali. Non riceveva fondi dallo Stato o da altri enti pubblici ma si finanziava con le quote sociali. Non aveva poteri pubblici, non era l’unico sindacato del settore e non faceva parte di un accordo chiuso (ovvero quello che prevede che l’azienda assuma unicamente gli aderenti ad un determinato sindacato: cd. cloased shop). Se ne deduce che i lavoratori erano liberi di aderire ad altri sindacati e di agire in sede giudiziaria per la tutela dei propri diritti o, comunque, «fossero a rischio individuale o non protetti da possibili azioni avverse da parte del datore di lavoro (sentenza Associated Society of Locomotive Engineers and Firemen, cit, § 50)».
Nella sostanza, la controversia riguardava la legittimità del rifiuto del ricorrente ad ammettere nel sindacato i quindici aspiranti membri, così violando, secondo il governo nazionale, lo statuto della CHS.
Ribadito che non è compito della Corte «sostituire una propria valutazione dei fatti a quella dei giudici nazionali», resta che ha il dovere di valutare eventuali violazioni della Convenzione e la congruità nella valutazione dei fatti.
Nel caso specifico, la Corte rileva che:
Non esistevano indicazioni autorevoli sull’applicazione delle norme interne del sindacato circa l’ammissione di soggetti esterni;
La valutazione dei giudici nazionali nei confronti del sig. Vlahov era molto succinta e non risultava alcun approfondimento circa il rispetto da parte del ricorrente alle norme pertinenti dello Statuto, tenuto conto delle norme di legge nazionali e dell’all’art. 11 della Convenzione;
Se poi è vero che lo statuto non prescrivesse particolari requisiti per l’associazione al sindacato di nuovi membri, doveva osservarsi che nessun esame risulta essere stato svolto sulla circostanza che il ricorrente, all’epoca dei fatti, con il suo comportamento, rappresentasse o meno gli interessi del sindacato e che nessuno dei soggetti non ammessi abbia promosso ricorsi avverso la loro esclusione;
Il ricorrente inoltre ha affermato che il suo comportamento non era finalizzato ad escludere in assoluto l’adesione degli esclusi, ma unicamente quello di rinviare la decisione all’assemblea per decidere sul punto, spettando a quest’ultima la valutazione se le nuove adesioni fossero da accogliere o meno nell’interesse del sindacato.
I giudici nazionali, in questa situazione, risultano avere respinto senza motivazione di acquisire ulteriori prove finalizzate a verificare le circostanze, riferite dal ricorrente, che riguardavano la richiesta degli aspiranti di aderire al sindacato, limitandosi a rilevare che «la sua richiesta era irrilevante».
In tale situazione, tenuto conto della carenza di motivazioni e della ricorrenza di omissioni da parte dei giudici nazionali in merito all’accertamento di fatti rilevanti e pertinenti nel caso specifico, in assenza di conseguenze pregiudizievoli per soggetti esclusi, nonché di ogni palese intento discriminatorio nelle azioni del ricorrente, la Corte ritiene che non vi siano elementi per ritenere che l’azione giudiziaria e la relativa condanna del ricorrente risulti giustificata e conforme ai principi sanciti dall’art. 11 della Convenzione.
Non risulta infatti che vi fossero i presupposti per un’ingerenza come quella posta in essere attraverso la condanna penale del ricorrente (§ 73).
La Corte dichiara quindi la violazione dell’art. 11 della Convenzione e condanna lo Stato al pagamento delle spese.
5. Brevi conclusioni
Il caso, veramente particolare, trattato dalla Corte è utile per comprendere il lavoro interpretativo della Corte EDU.
La sentenza precisa con particolare chiarezza la funzione sussidiaria della Corte, che non è quella di valutare la correttezza della decisione nel merito del giudice nazionale, così rischiando di fungere da ulteriore grado del giudizio (per approfondimenti si veda il numero speciale di Questione giustizia dell’aprile 2019 sulla giurisprudenza della Corte EDU), bensì quello di custode dei lavori e dei principi sanciti nella Carta fondamentale dei diritti dell’Uomo siglata a Roma nel 1950 e, ancora, di stretta e fondamentale attualità.
La Corte di Lussemburgo valuta invece se le decisioni dei giudici degli Stati aderenti sono conformi ai principi sanciti nella convenzione, sia con riferimento alla specifica fattispecie, nel caso l’art.11 sulla libertà di azione sindacale, sia, (occorrendo in connessione) a quelli generali del giusto processo di cui all’art. 6 della Convenzione che, nel caso specifico, pare essere stato palesemente violato.
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Diritti degli interessati
Ai soggetti cui si riferiscono i dati spettano i diritti previsti dall’art. 7 del D.Lgs. 196/2003 che riportiamo di seguito:
1. L’interessato ha diritto di ottenere la conferma dell’esistenza o meno di dati personali che lo riguardano, anche se non ancora registrati, e la loro comunicazione in forma intelligibile.
2. L’interessato ha diritto di ottenere informazioni:
a) sull’origine dei dati personali;
b) sulle finalità e modalità del trattamento;
c) sulla logica applicata in caso di trattamento effettuato con l’ausilio di strumenti elettronici;
d) sugli estremi identificativi del titolare, dei responsabili e del rappresentante designato ai sensi dell’articolo 5, comma 2;
e) sui soggetti o delle categorie di soggetti ai quali i dati personali possono essere comunicati o che possono venirne a conoscenza in qualità di rappresentante designato nel territorio dello Stato, di responsabili o incaricati.
3. L’interessato ha diritto di ottenere:
a) l’aggiornamento, la rettificazione ovvero, quando vi ha interesse, l’integrazione dei dati;
b) la cancellazione, la trasformazione in forma anonima o il blocco dei dati trattati in violazione di legge, compresi quelli di cui non è necessaria la conservazione in relazione agli scopi per i quali i dati sono stati raccolti o successivamente trattati;
c) l’attestazione che le operazioni di cui alle lettere a) e b) sono state portate a conoscenza, anche per quanto riguarda il loro contenuto, di coloro ai quali i dati sono stati comunicati o diffusi, eccettuato il caso in cui tale adempimento si rivela impossibile o comporta un impiego di mezzi manifestamente sproporzionato rispetto al diritto tutelato.
4. L’interessato ha diritto di opporsi, in tutto o in parte:
a) per motivi legittimi al trattamento dei dati personali che lo riguardano, ancorché pertinenti allo scopo della raccolta;
b) al trattamento di dati personali che lo riguardano a fini di invio di materiale pubblicitario o di vendita diretta o per il compimento di ricerche di mercato o di comunicazione commerciale.
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