Se il patto di prova non è specifico il recesso ad nutum non basta
di D. Bellini -
Il caso.
Al termine del periodo di prova una lavoratrice, inizialmente inquadrata al V livello del CCNL Commercio, veniva licenziata senza motivazione (in apparente armonia con l’art. 2096 c.c. che, come noto, prevede il recesso ad nutum per il licenziamento intimato durante il patto di prova).
Il licenziamento era impugnato dalla lavoratrice, che rilevava preliminarmente la genericità del patto. Quest’ultimo si risolveva, secondo la ricorrente, in un generico rinvio al contratto collettivo, e il livello richiamato, su cui la prova avrebbe dovuto esplicarsi, non era univoco e accorpava diversi profili professionali.
La domanda della lavoratrice – motivata sulla genericità del patto di prova (per questo motivo nullo) e volta ad ottenere la reintegra – veniva accolta in primo grado e confermata in appello.
La società proponeva ricorso in Cassazione, evidenziando che il requisito di specificità del patto di prova poteva essere adeguatamente assolto anche per relationem, e con un semplice rinvio al contratto collettivo (come nel caso di specie, dove il richiamo era al quinto livello del CCNL Commercio).
Le motivazioni.
Il ricorso è respinto e il Supremo Collegio si allinea alla doppia conforme del merito, ribadendo che «il riferimento alla posizione di operaio di 5 livello c.c.n.l. applicabile, e quindi alla sola qualifica di inquadramento, risultava inidoneo, in difetto di altre indicazioni, a consentire la identificazione ex ante delle mansioni di concreta adibizione della lavoratrice».
Nell’affermare questo principio, la Cassazione dichiara di aderire all’orientamento che ammette l’assolvimento del requisito di specificità per relationem, ma a condizione che «il richiamo sia sufficientemente specifico e riferibile alla nozione classificatoria più dettagliata».
Con la conseguenza che «se la categoria di un determinato livello accorpa una pluralità di profili, è necessaria l’indicazione del singolo profilo, mentre risulterebbe generica quella della sola categoria» (Cass., 13 aprile 2017, n. 9597, nel caso esaminato la S.C. ha confermato la sentenza impugnata che aveva ritenuto generico il rinvio del patto di prova alle mansioni di “operatore ecologico di primo livello“, di cui all’art. 14 del c.c.n.l. Nettezza Urbana, attesa la presenza, nella medesima area, di una pluralità di profili professionali; si v. anche Cass., 20 maggio 2009, n. 11722, nel caso di specie è stato ritenuto sufficientemente specifico il rinvio al quarto livello del CCNL commercio se accompagnata dalla contestuale indicazione del profilo di addetto al magazzino).
La Corte, quindi, valorizza la non adeguata specificità del richiamo al quinto livello del CCNL Commercio (che accorpa diversi profili professionali) e si discosta dal precedente orientamento (Cass., 16 gennaio 2015, n. 665) citato dalla società ricorrente e qualificato dal Supremo Collegio come isolato, secondo cui sarebbe «sufficientemente specifico il patto di prova che faccia riferimento alla [sola] categoria lavorativa prevista dal contratto collettivo, poiché permette l’assegnazione del lavoratore ad uno dei plurimi profili rientranti in esso, si da consentire maggiori opportunità di utilizzazione del lavoratore in azienda».
Questo diverso orientamento, meno rigoroso, e volto a favorire anche una maggiore intercambiabilità e duttilità del lavoratore, è definito dalla Corte come «non condivisibile», perché «poco coerente con la causa del patto di prova, tradizionalmente individuata nella tutela dell’interesse di entrambe le parti contrattuali a sperimentare la reciproca convenienza al contratto di lavoro» e vista la necessità di «consentire l’adeguato ed effettivo controllo, seppur limitato, controllo giudiziale sul potere di recesso … possibile solo allorquando siano ben note e specificate, fin da prima del periodo di prova, le mansioni dettagliate che il lavoratore sarà chiamato ad esercitare».
L’ordinanza – che ribadisce il principio di necessaria specificità del patto di prova – offre l’occasione per fare (molto brevemente) il punto sulle conseguenze sanzionatorie in caso di recesso ad nutum che segue un patto di prova nullo (anche perché non sufficientemente specifico). Abbiamo visto che la genericità del patto di prova (quindi nullo) rende cedevole, e solo apparente, il regime di libera recedibilità previsto dalla legge.
Prima della introduzione del contratto a tutele crescenti, e nel vigore del regime Fornero, il recesso ad nutum successivo ad un patto di prova nullo veniva attratto nell’alveo della tutela reintegratoria attenuata prevista dall’art. 18 IV comma dello Statuto dei Lavoratori (Cass. 12 settembre 2016, n. 17921 – nel caso di specie veniva cassata la sentenza di merito che aveva ritenuto applicabile il regime di nullità di diritto comune in luogo delle tutele previste dalla disciplina ordinaria dei licenziamenti; si v. anche Cass., 12 settembre 2016, n. 17914). Tale impostazione trovava sostegno «vuoi con il fatto che l’addebito disciplinare non sussiste (non essendovi per definizione la sua contestazione), vuoi perché l’eventuale motivo oggettivo, non essendo dedotto in motivazione, non può che essere manifestamente insussistente» (si v. sul punto v. Giglio, LDE, 2, 2021, pag. 6 che pure non aderisce con questa impostazione; si v. anche Fontana, Nullità del patto di prova e conseguenze sanzionatorie, in ADL, 1, p. 238).
L’orientamento sopra esposto ha perso, con l’avvento del contratto a tutele crescenti, il carattere di univocità che lo contraddistingueva. Con la conseguenza che si sono aperti, innanzi all’interprete, orizzonti interpretativi non ancora totalmente delineati.
In particolare, secondo un primo (e prevalente) orientamento, sarebbe applicabile l’art. 3 d.lgs. n. 23/2015. All’interno di questo orientamento, si distinguono due filoni: un primo che sostiene l’applicabilità del secondo comma, e quindi la tutela reintegratoria attenuata (Trib. Milano, 17 aprile 2018, n. 1704), e un secondo che invece afferma l’applicazione del primo comma, e quindi soltanto la tutela indennitaria (Trib. Monza, 14 febbraio 2020, n. 103; Trib. Roma, 6 novembre 2017, n. 8953).
In entrambi i casi l’attenzione dell’interprete è focalizzata sulla giustificatezza del licenziamento, che inevitabilmente viene meno, visto che il recesso non è focalizzato sulle ipotesi di cui all’art. 3 l. n. 604/1966, ma soltanto sul superamento del patto di prova.
Secondo un diverso orientamento, invece, sarebbe applicabile la tutela reintegratoria forte (Trib. Piacenza, 17 settembre 2020, n. 119). Nell’affermare questa soluzione, il Tribunale sembra porsi in una diversa prospettiva, che non poggia sulla assenza di giustificazione, ma si concentra, a monte, sulla causa del licenziamento: «il licenziamento ad nutum intimato nel periodo di prova è privo di causa, e come tale viziato da nullità espressamente prevista dalla legge (artt. 1325 e 1418 c.c., comma 2 c.c.) e foriero della tutela somministrata dall’art. 2 D. Lgs. 23/2015». A questo orientamento aderisce una parte della dottrina (v. Giglio, op. cit., p. 24) sostenendo la natura di norma di chiusura dell’art. 2 d.lgs. n. 23/2015, per questo idoneo a ricomprendere ogni licenziamento invalido e affetto da vizi diversi dalla ingiustificatezza e dai vizi procedurali.
Nell’attesa dell’intervento della Cassazione, osserviamo con attenzione il delinearsi di questi scenari.
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