La Cassazione conferma, ancora una volta, il dogma dell’incasso giuridico
di R. Lancia -
Con l’ordinanza del 14 aprile 2022, n. 12222, la Corte di Cassazione, sez. VIª, ha confermato, in relazione al trattamento fiscale da riservare alle rinunce dei soci a crediti correlati a redditi assoggettati a tassazione per cassa, la legittimità della tesi del c.d. “incasso giuridico”. In accordo a tale tesi, risalente alla C.M. del 27 maggio 1994, n. 73/E, la rinuncia ai crediti relativi a redditi acquisiti a tassazione per cassa presuppone l’avvenuto incasso giuridico dei crediti stessi e, pertanto, l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare.
A fronte del rigetto, da parte del giudice di prime cure, del ricorso avverso un avviso di accertamento relativo all’IRPEF che traeva origine dalla rinuncia dell’amministratore al Trattamento di Fine Mandato (TFM) accantonato in suo favore dalla società di cui era anche socio, il giudice di secondo grado ha accolto l’appello poiché (i) l’ordinamento giuridico ammette ipotesi di fictio iuris che, però, sono espressamente previste dal legislatore e (ii) la capacità contributiva può essere assoggettata al prelievo fiscale soltanto se concreta (e non meramente astratta e virtuale).
Il TFM, oggetto della rinunzia dell’amministrare socio, è un’indennità non disciplinata in modo specifico dalla normativa civilistica, che la società può corrispondere agli amministratori alla scadenza del loro mandato. L’ammontare del TFM è determinato, in base ai criteri di ragionevolezza e congruità rispetto alla realtà economica dell’impresa, tramite una specifica previsione statutaria ovvero mediante delibera assembleare dei soci (cfr. Agenzia delle Entrate, risoluzione 13 ottobre 2017, n. 124/E, 4. Sulla deducibilità del TFM per la società, si v. Cass., sez. Vª, 16 luglio 2020, n. 15163; Cass., sez. Vª, 6 novembre 2020, n. 24848; Cass., sez. Vª, 16 febbraio 2021, n. 3994. Ai fini previdenziali, l’Istituto Nazionale della Previdenza Sociale riconduce il TFM alla “Gestione Separata INPS” e i contributi devono essere versati, entro il limite del massimale previsto, secondo il principio di cassa; cfr. INPS, nota 15 marzo 2002, n. 27/7265).
L’Agenzia delle Entrate ha proposto ricorso per cassazione per violazione e/o falsa applicazione: (i) degli artt. 88 e 94 del d.p.r. 22 dicembre 1986, n. 917 (TUIR), per essere il credito, anche se non materialmente incassato, comunque utilizzato tramite un atto di disposizione avente natura di rinuncia e (ii) dell’art. 53 Cost. per violazione del principio della capacità contributiva, essendo la rinuncia al TFM incasso in senso “giuridico” del credito da sottoporre a tassazione. La Cassazione – dal proprio canto, favorevole, comunque, alla tesi erariale – ha statuito che, in base alla tesi dell’incasso giuridico, la rinuncia al credito da parte del socio rappresenta un’operazione diretta a patrimonializzare la società in cui sarebbe ravvisabile: (i) l’aumento del valore fiscale della partecipazione sociale e (ii) un atto di disposizione del credito da parte del socio tramite l’atto abdicativo costituito dalla rinuncia.
A tale riguardo, sembra opportuno precisare che la tesi dell’incasso giuridico si fonda su una mera fictio iuris, atteso che la rinuncia del credito, effettuata dal titolare del relativo diritto, equivarrebbe, ai fini delle imposte sui redditi, al relativo incasso – per l’appunto, “giuridico” – e, nonostante l’assenza di monetizzazione del provento, quel dato elemento reddituale diverrebbe fiscalmente rilevante con conseguente imponibilità dello stesso, quand’anche oggetto di rinuncia da parte del socio-creditore (cfr. Lancia, Il dogma dell’incasso giuridico: l’origine della tesi, le critiche della dottrina e le posizioni della Cassazione, in Riv. dir. trib., supplemento online, 2020, 1 ss.). Pertanto, la rinuncia – fondandosi sull’idea di stampo più civilistico che fiscale – presupporrebbe il conseguimento del credito il cui importo, ancorché non materialmente incassato, verrebbe, pur sempre, “utilizzato” dal rinunziante (come, tra l’altro, rimarcato anche in tale occasione dalla Cassazione nonché, per ulteriori riferimenti, si v. Cass., sez. VIª, 26 gennaio 2016, n. 1335; Cass., sez. Vª, 24 marzo 2017, n. 7636; Cass., sez. VIª, 30 gennaio 2020, n. 2057). Sotto questo profilo, la Cassazione ha, altresì, affermato che, qualora si tratti di crediti da lavoro autonomo del socio nei confronti della società, tali crediti, sebbene non materialmente incassati, sarebbero, in ogni caso, conseguiti ed utilizzati con obbligo di assoggettamento a tassazione del relativo ammontare, anche tramite la ritenuta fiscale, ai sensi dell’art. 25 del d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600 (sul punto anche Cass., sez. Vª, 24 settembre 2014, n. 26842).
A ben vedere, la tesi dell’incasso giuridico, a fronte delle varie applicazioni che ha avuto nella prassi, è stata impiegata dall’Agenzia delle Entrate anche con riguardo alla figura del socio amministratore come previsto dalla risoluzione n. 124/E del 2017. Nell’ipotesi di rinuncia al TFM, l’Amministrazione finanziaria ha distinto la posizione del socio amministratore da quella dell’amministratore non socio:
a) nel primo caso, il credito rinunziato non determinerebbe il configurarsi di alcuna sopravvenienza attiva per la società nei limiti in cui non venga superato il relativo valore fiscale, pur dovendo essere tassato il socio amministratore per considerarsi il credito giuridicamente incassato. Tuttavia, si potrebbe, chiaramente, generare per la società una sopravvenienza attiva tassabile nel caso di rinuncia del socio al credito limitatamente alla parte eccedente il relativo valore fiscale, ai sensi dell’art. 88, comma 4-bis, del TUIR;
b) nel secondo caso, invece, la società dovrebbe essere tassata a fronte dell’emersione di una sopravvenienza attiva, ai sensi dell’art. 88, comma 1, del TUIR, nei limiti in cui abbia dedotto gli accantonamenti relativi al TFM in passato, mentre l’amministratore privo della qualifica di socio non sconterebbe alcun prelievo.
La ratio di tale trattamento – come si può notare – differente tra amministratore socio e amministratore non socio si ravvisa nell’assenza in quest’ultimo di una “contropartita” e, attesa l’impossibilità di incrementare il valore fiscale della partecipazione, la tesi dell’incasso giuridico non troverebbe applicazione tanto che tale soggetto non sarebbe assoggettato ad imposizione fiscale.
Le critiche avanzate dalla dottrina al dogma dell’incasso giuridico sono note e si fondano su diversi argomenti, ognuno dei quali meritevole di apprezzamento. In origine, tale tesi era stata giustificata per una finalità marcatamente anti-abuso, in quanto evitava il configurarsi di (legittimi) salti d’imposta dati dalla combinazione del principio di competenza per la società e del principio di cassa per il socio persona fisica non imprenditore (Gallio, Tassate le somme rinunciate dal socio-amministratore e dedotte dalla società, in Il fisco, 2016, 783). Tuttavia, questa finalità – invero, solo impropriamente anti-abuso a causa della mancata attivazione della garanzie procedimentali a tutela del contribuente, previste dall’art. 10-bis della legge 27 luglio 2000, n. 212, – non ha consentito di validarla rispetto ad ogni fattispecie a cui è stata e viene applicata, posto che non sempre si verrebbero a delineare salti d’imposta come, ad esempio, nel caso in cui il debito maturato dalla società partecipata derivi da un costo non dedotto quale il compenso annuo spettante all’amministratore (Andreani, Tubelli, La tesi dell’incasso giuridico alla luce della disciplina delle rinunce dei soci ai crediti, in Il fisco, 2017, 2620 ss.).
Lo stesso significato della dizione “incasso”, almeno nel rispetto dell’art. 53 Cost. e della disciplina dei redditi di capitali di cui agli artt. 44 e ss. del TUIR, postulerebbe il materiale ed effettivo percepimento del provento da assoggettare al prelievo fiscale in virtù dell’impossibilità di equiparare la mera rinuncia al credito da parte del socio alla percezione fisica del compenso (Stevanato, Le rinunce dei soci a crediti per somme dedotte dalla società: se il reddito del socio è imponibile ‘per cassa’ si può evitare un salto d’imposta, in Rass. trib., 1994, 1555; Miele, Russetti, Rinuncia dei soci ai dividendi fra incasso giuridico e costo fiscale del credito, in Corr. trib., 2020, 839 ss.; Cagnoni, D’Ugo, Germani, L’insostenibile tesi dell’incasso giuridico senza concreto vantaggio economico, in Il fisco, 2018, 112 ss.). Di conseguenza, sarebbe evidente il contrasto della tesi dell’incasso giuridico con l’art. 53 Cost. e il sistema di tassazione dei redditi di capitali (cfr. CTR della Lombardia, 29 gennaio 2018, n. 354; CTP di Reggio Emilia, 15 ottobre 2018, n. 197), come, in ogni caso, sottolineato – correttamente – anche dal giudice di secondo grado a cui è stata sottoposta la cognizione della vicenda in esame (cfr. CTR della Toscana, 17 dicembre 2019, n. 1860).
Nondimeno, l’intervento di riforma attutato tramite il d.lgs. 14 settembre 2015, n. 147 (Decreto Internazionalizzazione), cui si deve l’introduzione del comma 4-bis dell’art. 88 del TUIR avrebbe dovuto – almeno nelle intenzioni del legislatore delegato – essere fonte di un ripensamento della tesi dell’incasso giuridico. D’altronde, tale novella ha mutato sensibilmente il rapporto socio-società in seno alla rinuncia dei crediti da parte del socio tanto che dall’iniziale irrilevanza fiscale dello stesso si è passati ad una rilevanza fiscale di carattere “variabile”, a seconda della coincidenza o meno del valore fiscale con il valore normale del credito rinunziato (Lancia, Il dogma dell’incasso giuridico: l’origine della tesi, le critiche della dottrina e le posizioni della Cassazione, in Riv. dir. trib., supplemento online, cit., 3). Pertanto, la rinuncia al credito da parte del socio potrebbe determinare, oltre alla tassazione di quest’ultimo in forza della tesi dell’incasso giuridico, l’emergere di una sopravvenienza attiva tassabile per la società, dando luogo ad un fenomeno di doppia imposizione.
Con l’ordinanza n. 12222 del 2022, la tesi dell’incasso giuridico ha trovato – ancora una volta – l’avallo della Cassazione per costituire la rinuncia al TFM da parte del socio amministratore l’incasso giuridico del credito stesso, poiché, da un lato, presupporrebbe la possibilità di disporre di una somma di denaro, a sua volta espressione della volontà di patrimonializzare la società in ragione dell’impiego del credito nel perseguimento di tale scopo, e dall’altro, arricchirebbe un soggetto giuridico (i.e., la società) appartenente, di fatto, al rinunziante, in quanto socio della stessa.
Peraltro, a giudizio della Suprema Corte, nel caso di una società a ristretta base proprietaria in cui tutti i soci fossero anche amministratori e tutti rinunciassero al compenso loro dovuto per il possesso di tale qualità ovvero nell’ipotesi di socio amministratore-unico si verrebbe a delineare una distorsione, poiché il socio-amministratore rinunziante rimarrebbe, per il tramite della società, proprietario dell’intera somma oggetto di rinunzia non sottoposta a tassazione, salvo ricorso alla tesi dell’incasso giuridico. Invero, ciò sembra mostrare – più che una distorsione del sistema – una tendenza del legislatore tributario a non considerare rilevanti fenomeni del genere come, tra l’altro, dimostrato dall’assenza nel diritto positivo di una specifica norma che preveda la tesi (rectius: il dogma) dell’incasso giuridico (si v. anche Del Federico, Profili fiscali della rinuncia dei crediti da parte dei soci, in Il fisco, 1994, 9016). Ed infatti, tale dogma – nell’ancorare l’imposizione fiscale al mero utilizzo di un credito (e non già alla percezione di un reddito) – pare si scontri con il principio costituzionale di capacità contributiva e con la disciplina sui redditi di capitale, rendendo del tutto irrazionale la tassazione di un arricchimento mai verificatosi e che – beninteso – mai si verificherà.
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