Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro: l’opinione di Luigi de Angelis
di L. de Angelis -
Ragionando a caldo su vaccinazioni e rapporto di lavoro.
1. Il già fitto dibattito giuridico sul tema di vaccinazioni e rapporto di lavoro, aperto da un’intervista rilasciata da Pietro Ichino al Corriere della sera il 29 dicembre scorso, i cui contenuti e conclusioni sono però stati puntualizzati in successivi interventi superando la inevitabile superficialità del mezzo, si è particolarmente focalizzato sulla licenziabilità o meno del lavoratore che abbia rifiutato di adempiere all’ordine datoriale di sottoporsi a vaccinazione anti-covid19. A questo aspetto, certo di notevolissimo rilievo, se ne aggiungono altri, come quello della responsabilità risarcitoria (oltre che penale) del datore di lavoro che non abbia impartito tale ordine o che abbia consentito la presenza al lavoro del dipendente non vaccinato che abbia contagiato altri, e quello della responsabilità dello stesso lavoratore in tale situazione per i danni arrecati al datore di lavoro e ai compagni di lavoro. Tali responsabilità sembrerebbero entrambe presupporre l’obbligatorietà della vaccinazione in questione; quella obbligatorietà che, stando all’ art. 32 cost., parrebbe non esserci in mancanza della «disposizione di legge» di cui al comma 2 dell’articolo stesso.
Sennonché, sia pure a fini di sicurezza sociale (il diritto all’indennizzo a favore di soggetti danneggiati da vaccinazione), l’ordinamento si accontenta della semplice raccomandazione della vaccinazione «in presenza di diffuse e reiterate campagne di comunicazione a favore dei trattamenti vaccinali», come ha puntualizzato la Corte costituzionale a proposito della vaccinazione antinfluenzale (14 dicembre 2017, n. 268; ma v. anche 18 aprile 1996, n. 118) ponendo in luce le esigenze di solidarietà sociale e di tutela della salute sottese alla vaccinazione. Solidarietà sociale secondo la corte, si badi bene, «reciproca fra individuo e collettività», vale a dire della collettività che deve corrispondere a chi abbia riportato danno alla salute per effetto di una vaccinazione un indennizzo anche se la vaccinazione stessa è semplicemente raccomandata ma anche dell’individuo verso la collettività interessata alla più ampia immunizzazione del rischio.
Certo la sicurezza sociale è cosa molto diversa. Da quanto detto, però, emerge come l’ordinamento consideri un valore il sottoporsi a vaccinazione di quel tipo, o meglio consideri che tale sottoposizione corrisponda a quelle esigenze della collettività che l’art. 32, comma 1, Cost. contempla, in uno con i diritti fondamentali dell’individuo, nel sancire la tutela della salute. C’è allora da chiedersi, ora che accogliendo le numerose sollecitazioni dottrinali anche la giurisprudenza, a partire da Cass., sez. un., 22 luglio 1999, n. 500, ritiene che l’ingiustizia del danno di cui all’art. 2043 c.c. sia stata scollegata dalla lesione del diritto soggettivo («Ai fini della configurabilità della responsabilità aquiliana non assume rilievo determinante la qualificazione formale della posizione giuridica vantata dal soggetto, poiché la tutela risarcitoria è assicurata solo in relazione alla ingiustizia del danno, che costituisce fattispecie autonoma, contrassegnata dalla lesione di un interesse giuridicamente rilevante»: Cass., sez. un., n. 500/1999), se, in presenza di contagio provocato dal lavoratore a compagno di lavoro, la mancata sottoposizione a vaccinazione semplicemente raccomandata non possa essere fonte di responsabilità aquiliana (o contrattuale, se si aderisca alla tesi del “contatto sociale”: v., tra le più recenti, Cass. ord. 8 aprile 2020, n. 7746) ravvisandosi l’ ingiustizia nella lesione di un interesse considerato meritevole dall’ ordinamento (costituzionale). Questo deve però scontare le notevoli difficoltà sul piano probatorio del nesso causale. Inoltre, la responsabilità potrà essere piena se il pregiudizio sia stato arrecato a chi non abbia potuto giustificatamente vaccinarsi (v. infra), e concorrente altrimenti. E questo può valere anche al di fuori del rapporto di lavoro.
2. Ma torniamo al tema posto dalla richiamata intervista di Ichino sul quale si sono confrontate opinioni di vario segno e che presuppone la disponibilità di un vaccino scientificamente accreditato e certificato (come è nel caso che ci riguarda) dai competenti organi europei e italiani e che sono oggetto di “diffuse e reiterate campagne di comunicazione” a loro favore, pur se per essi non è intervenuto, diversamente da altri vaccini da differenti agenti patogeni, un provvedimento legislativo.
Ebbene, non mi convincono le tesi, allo stato maggioritarie, di coloro che sia pure con qualche distinguo escludono l’esistenza dell’obbligo dei lavoratori di sottoporsi alla vaccinazione Covid per ordine datoriale.
E’ vero che l’art. 32, comma 2, Cost. prevede la riserva di legge in materia e che appare forzato rinvenire questa nella disposizione generica dell’art. 2087 c.c. anziché in una disposizione ad hoc, posto che nell’enunciato il rinvio alla legge è secco mentre l’art. 2087 richiede un comportamento datoriale; che la l. n. 178/2020, che, agli artt. 457 ss. contiene il piano strategico nazionale dei vaccini per la prevenzione delle infezioni in questione, non prevede l’ obbligatorietà della vaccinazione per i cittadini e per specifiche categorie di lavoratori; che l’ art. 279, comma 2, lett. a) d.lgs. n. 81/2008 impone al datore di lavoro di «tenere a disposizione vaccini efficaci da somministrare da parte del medico competente», se possibile, e non di prescriverne la obbligatorietà della somministrazione, come è confermato con chiarezza dal comma 5 della disposizione laddove dice dell’ obbligo d’informazione in capo al medico competente dei «vantaggi ed inconvenienti della vaccinazione e della non vaccinazione», e comunque con riguardo ad agenti patogeni presenti nella lavorazione (endogeni e non esogeni); ed è ancora vero che l’ art. 29 bis del d.l. n. 34/2020, conv. in l. n. 40/2020 limita a quanto previsto dai protocolli le misure che il datore deve adottare in materia. Tutto questo è vero, come da più voci é stato sottolineato.
2. bis Tuttavia, ribadito come l’ art. 32, comma 1, tuteli la salute oltre che come diritto fondamentale dell’individuo come interesse della collettività, concordo con il rilievo avanzato da Cester per cui il comma 2 della stessa disposizione sembra riferirsi alla dimensione personalistica dell’ individuo per sé considerato e non laddove l’individuo operi in contatto con terzi (c.d. contatto sociale), in tal caso, lo sottolineo, venendo in gioco appunto anche l’interesse della collettività cui in tal modo viene dato il rilievo giuridico che merita. Ciò è pure nel caso del rapporto di lavoro, naturalmente ove questo contatto esista; rapporto in cui proprio perciò il datore di lavoro ha l’obbligo di sicurezza di cui all’ art. 2087 c. c., il quale, per giurisprudenza consolidata, comprende la massima sicurezza possibile, e quindi l’adozione di tutto quanto richiedono le conoscenze scientifiche e le tecniche atte a prevenire l’insorgere degli eventi lesivi, adeguando quindi a tali conoscenze gli ambienti e le procedure di lavoro. Non si trascuri, al riguardo, che l’art. 2087, oltre ad entrare nel rapporto di lavoro come é ormai un dato acquisito da molto tempo, ha anche una rilevanza pubblicistica (obbligo verso lo stato): la doppia rilevanza dell’art. 2087 di cui diceva Luigi Montuschi la cui elaborazione è stata decisiva a far affermare la dimensione privatistica.
A questo punto assume un significato pregnante in questa sede l’art. 20 del d.lgs n. 81/2008 che istituisce una correlazione tra obblighi del datore e quelli del lavoratore disponendo che: «Ogni lavoratore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo del lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro».
Quando a poter entrare in contatto con i terzi sia poi un operatore sanitario c’è da aggiungere che il proprium della sua prestazione – se si vuole, l’oggetto – sia la cura degli altri, e cioè la loro guarigione o il loro star meglio. Il che a fortiori implica l’evitare il rischio che la loro salute possa subire pregiudizio dalla prestazione medesima. Lorenzo Zoppoli ha in questo caso fatto riferimento al codice deontologico del lavoratore raggiungendo in proposito il medesimo risultato.
Le considerazioni che precedono portano a ritenere, nel limite suddetto del contagio sociale, l’esistenza di un doppio obbligo, del datore di lavoro e del lavoratore, per quest’ultimo naturalmente ove non sussista una ragionevole giustificazione che dall’obbligo lo sollevi (si pensi ad un’allergia o ad una malattia su cui il vaccino agisca pregiudizievolmente). Quanto al primo, non mi sembra utilizzabile in contrario l’art. 29 bis cit. (disposizione il cui valore precettivo assorbente è stato peraltro convincentemente ridimensionato in dottrina da Albi), che non pare possa comprendere situazioni posteriori ai protocolli. Né, secondo questa disposizione sembra potersi rimettere l’adeguamento a nuove situazioni a successivi protocolli da emanare, posto che essi hanno comunque base contrattuale (collettiva) e come tali richiedono tempi e consenso delle parti incompatibili con le esigenze di una pandemia. Sarebbe ad esempio contro l’elementare buon senso e la ragionevolezza, con ciò facendo perdere credibilità alle interpretazioni che li comportano, sostenere che, ove la scienza abbia rilevato la sufficiente idoneità protettiva delle mascherine che tutti noi stiamo usando e siano queste ad essere prescritte dai protocolli, il datore di lavoro non sia tenuto a fornirne altre, quelle invece maggiormente efficaci indicate sempre dalla scienza, in attesa di un nuovo protocollo. Ho detto obbligo, e non onere, figura giuridica soggettiva cui pure si è fatto ricorso, sembrandomi eccessivamente flebile rinvenire la necessità di una condotta per soddisfare un interesse proprio, come è per tale figura, nella «prosecuzione “ordinata” del rapporto, senza il carico di rischi eccedenti la relazione contrattuale, gravanti sugli altri lavoratori o terzi soggetti» (così, invece, Cester): qui è appunto l’ interesse altrui, quello della collettività, a venire principalmente in gioco. Inoltre, se poi intendessimo l’onere con riguardo allo svolgimento delle mansioni il mancato assolvimento comporterebbe che esse non potrebbero essere svolte, con il conseguente inadempimento della prestazione. Nella sentenza n. 218 del 1994 della Corte costituzionale richiamata da chi ha qui utilizzato tale figura, è poi il caso di notarlo, il riferimento all’onere non sembra avere, nel contesto della decisione, un significato tecnico.
Va da sé che se il lavoratore sia obbligato a rispettare l’ordine è tenuto anche a provare al datore di lavoro l’avvenuta vaccinazione, superandosi i problemi legati al rispetto della privacy.
3. La tesi fin qui sostenuta importa come conseguenza il rilievo disciplinare del comportamento contrario del lavoratore, con una sanzionabilità che tenga conto dei profili soggettivi e della proporzionalità della condotta e di tutte le circostanze concrete. Va rimarcato che il licenziamento disciplinare è l’ultima sanzione e non è soggetto al blocco previsto fino a tutto il 31 marzo di quest’anno per i licenziamenti per ragioni oggettive accompagnati dal peculiare intervento della cassa integrazione guadagni.
Non penso, invece, diversamente da quanto sostenuto da più autori, da alcuni anche in cumulo con la rilevanza disciplinare del fatto, che possa ricorrere la fattispecie dell’impossibilità temporanea sopravvenuta della prestazione per integrare, il rifiuto di sottoporsi a vaccinazione, l’inidoneità del lavoratore alla mansione affidatagli, con la conseguente sospensione non retribuita del rapporto ed il licenziamento per giustificato motivo oggettivo come extrema ratio e quindi, secondo una giurisprudenza ormai granitica (che per il vero da tempo non mi convince), l’obbligo di ripescaggio esteso alle mansioni inferiori e dopo la riforma dell’art. 2103 cod. civ. a tutte le mansioni comprese nell’inquadramento contrattuale collettivo. Mi sembra infatti forzato ravvisare l’inidoneità in un fatto che dipende dall’esclusiva volontà del lavoratore e per ragioni estranee a quell’interesse della collettività cui facevo in precedenza riferimento e cui, nella lettura che ho qui fornito, va raccordato l’esercizio del “diritto fondamentale dell’ individuo”.
Luigi de Angelis, già Presidente di sezione nella Corte d’Appello di Genova
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