Dibattito istantaneo su vaccini anti-covid e rapporto di lavoro: l’opinione di Adalberto Perulli
di A. Perulli -
La questione posta è di una complessità disarmante, mentre l’indicazione di contenere il dibattito in uno spazio così limitato rende possibile non una compiuta “argomentazione” ma solo una serie di assertive enunciazioni, le quali, per quanto mi concerne, esprimono un generale favore per un intervento del legislatore in subiecta materia e un altrettanto generale scetticismo sulla fondazione per via interpretativa di un obbligo di vaccinazione, ovvero di una imposizione di tale preteso obbligo vaccinale da parte del datore di lavoro, o ancora di un onere in capo al prestatore di eseguirla.
Non mi pare anzitutto sia possibile valorizzare l’art. 20, d. lgs. 81/2008, ai sensi del quale ogni prestatore deve prendersi cura della propria salute e sicurezza e di quella delle altre persone presenti sul luogo di lavoro, su cui ricadono gli effetti delle sue azioni o omissioni, conformemente alla sua formazione, alle istruzioni e ai mezzi forniti dal datore di lavoro. E’ abbastanza evidente, infatti, che tale obbligo non riguarda in assoluto il prendersi cura della propria saluta e sicurezza e di quella delle altre persone, ma solo in relazione, e quindi nei limiti, di quanto accade nell’ambito dell’organizzazione del lavoro, al cui interno le situazioni di potenziale rischio per la salute e sicurezza devono venire affrontate dal prestatore nel rispetto delle regole tecniche effettivamente sussistenti e codificate, ed in adempimento degli obblighi specifici previsti a tutela della salute nei luoghi di lavoro. Una tale interpretazione del disposto è confermata dalla lettura del comma 2, laddove vengono elencati una serie di comportamenti ed obblighi strettamente pertinenti a disposizioni e istruzioni ricevute relative al corretto utilizzo delle attrezzature di lavoro, all’impiego di sostanze e prodotti pericolosi, all’utilizzo dei dispositivi di protezione messi a disposizione, ecc. Non è quindi possibile ritenere che il lavoratore, rifiutando la vaccinazione, violi tale norma, o comunque ponga in essere un comportamento disciplinarmente rilevante[1], autorizzando – o addirittura imponendo – il suo licenziamento per giusta causa[2].
Men che meno sembra utile il richiamo all’art. 2087 c.c., in funzione di giustificazione di un obbligo di vaccinazione che il datore di lavoro deve rispettare (e far rispettare), e ciò nella misura in cui il legislatore stesso ha previsto che, ai fini della tutela contro il rischio di contagio da Covid-19, il datore di lavoro pubblico e privato adempie alle obbligazioni previste dalla norma codicistica “mediante l’applicazione delle prescrizioni contenute nel protocollo condiviso di regolamentazione sottoscritto dalle parti sociali il 24 aprile 2020 (e successive modificazioni e integrazioni). Orbene, come è ovvio, tale Protocollo, tutt’ora in vigore, nulla prevede in merito all’impiego del vaccino come misura di protezione individuale e di prevenzione del contagio, onde, da una parte, il datore non potrà in adempimento dell’art. 2087 c.c. imporre al lavoratore di sottoporsi a vaccinazione, e ciò non solo perché violerebbe l’art. 32 Cost, ma in quanto tale imposizione non è prevista tra le misure attualmente in vigore per la prevenzione del rischio di contagio da Covid-19 nei luoghi di lavoro, dall’altro non potrà ritenersi responsabile il datore di lavoro per il contagio eventualmente avvenuto sul luogo di lavoro e causato da un lavoratore non vaccinato, o che si è rifiutato di vaccinarsi, se egli ha correttamente adempiuto alle prescrizioni previste dal Protocollo condiviso. Né può dirsi che il datore abbia un diritto ad essere informato dal lavoratore circa il fatto di essersi vaccinato o meno, trattandosi di un dato necessario a gestire la prevenzione del rischio di contagio da Covid-19, non solo e non tanto perché si tratta di informazioni protette dalla privacy, ma soprattutto per la medesima ragione già esposta in merito all’adempimento datoriale degli obblighi di protezione, e cioè che, allo stato attuale della normativa, il datore di lavoro adempie alle prescrizioni ex art. 2087 c.c. attenendosi al Protocollo condiviso, ovvero ad altre disposizioni successive, che, allo stato, tuttavia, non sono state emanate. Né infine può dirsi che il lavoratore non vaccinato sia considerato inidoneo alle mansioni, e possa per questo venire sospeso (o addirittura licenziato per GMO) a causa della “inutilizzabilità” della sua prestazione[3], e ciò nella misura in cui la sua idoneità deve essere valutata in concreto ed oggettivamente in base allo stato di salute del lavoratore, alla condizione organizzativa della prestazione, e al quadro normativo vigente in materia di prevenzione del rischio di contagio, onde non pare che la mancata vaccinazione possa comportare alcuna inidoneità posto che il prestatore, impiegando le cautele e i dispositivi prescritti dal Protocollo, è stato sinora ritenuto “idoneo” al lavoro e non può, oggi, essere ritenuto inidoneo se la sua condizione soggettiva è esattamente la medesima di ieri, o di sei mesi fa, null’altro essendo mutato sul piano organizzativo, su quello delle sue condizioni soggettive, e su quello della normativa anti-Covid 19 nei luoghi di lavoro.
Non si vede quindi su quale solida base il datore di lavoro possa legittimamente imporre, come condizione per la prosecuzione del rapporto, che venga assolto un asserito “obbligo” di vaccinazione[4], posto che da nessuna delle norme richiamate un tale obbligo può dirsi scaturire. Anche il richiamo agli obblighi preparatori all’adempimento e ai doveri di protezione[5], non pare affatto decisiva, posto che, da una parte, l’art. 2087 c.c. costituisce già, in sé, una specificazione di tali doveri, onde non si comprende il vantaggio di “moltiplicare” tali obblighi se – come si è visto – neppure il rispetto della norma codicistica è tale da fondare l’obbligo vaccinale, e, dall’altro, che un tale obbligo autonomo di protezione potrebbe, al più, rilevare non in via preventiva, ma solo ex post, sulla base di una avvenuta lesione dell’integrità psico-fisica di cui dovrà essere accertato il nesso di causalità tra l’evento dannoso e l’espletamento della prestazione lavorativa[6]. Lo stesso ordine di argomenti può opporsi alla tesi che fonda un “onere” di vaccinarsi in ragione del “contatto sociale” tipico del rapporto di lavoro; né a fornire maggiore forza a tale prospettazione è utile il parallelismo con l’accertamento sanitario previsto in materia di HIV da Corte Cost 218/1994, per la semplice ragione che mentre in quel caso si trattava di eseguire un semplice controllo ematologico, qui si tratta di un trattamento farmacologico potenzialmente rischioso per la salute della persona (soprattutto a lungo termine, posto che tali effetti del vaccino non possono ovviamente essere stati né previsti né testati).
Adalberto Perulli, professore ordinario nell’Università Ca’ Foscari Venezia
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