Con due recenti pronunzie la Corte di Cassazione ritorna sulla questione della rilevanza ai fini della validità delle rinunzie e transazioni di lavoro della generale disciplina civilistica
di R. Scorcelli -
La sentenza del 1° marzo 2022, n. 6664 e l’ordinanza del 21 gennaio 2022, n. 1887 della Corte di Cassazione ribadiscono la rilevanza dell’ordinaria disciplina civilistica in materia di rinunzie e transazioni di lavoro ed offrono l‘occasione per ripercorrere i più significativi arresti giurisprudenziali al riguardo.
Com’è noto, l’art. 2113 c.c. stabilisce che le rinunzie e transazioni aventi ad oggetto diritti del lavoratore derivanti da disposizioni inderogabili della legge o dei contratti collettivi possono sempre essere impugnate dal lavoratore nei termini ivi previsti, a meno che non siano stipulate nelle sedi protette individuate dall’ultimo comma della norma.
L’art. 2113 c.c. tuttavia è applicabile esclusivamente ai negozi giuridici che effettivamente presentino tutte le caratteristiche delle rinunzie e delle transazioni e che non siano affetti da vizi di nullità o da cause di annullabilità secondo i principi generali. In tale ultimo caso, infatti, le rinunzie e le transazioni sono sempre impugnabili dalla parte interessata a prescindere dal decorso dei termini previsti per l’impugnazione ai sensi dell’art. 2113 c.c. ed anche in caso di stipulazione in una delle sedi previste dall’ultimo comma di tale norma.
Dal che la rilevanza dei profili di invalidità di tali negozi giuridici sul piano strettamente civilistico nell’ambito del quale il quadro normativo di riferimento è dunque costituito dagli artt. 1965 c.c. e ss. sulla transazione, dall’art. 1346 c.c. in materia di determinatezza dell’oggetto del contratto e dagli artt. 1425 c.c. e ss. sull’annullabilità del contratto per incapacità delle parti o per vizi del consenso.
Costituendo un contratto con il quale le parti, facendosi reciproche concessioni, pongono fine ad una lite già incominciata o prevengono una lite che può sorgere tra di loro (art. 1965 c.c.), la transazione presuppone innanzitutto un conflitto o contrasto di interessi in ordine alla medesima situazione giuridica, fermo restando che il conflitto può non aver assunto contorni precisi e definiti, essendo sufficiente un dissenso attuale suscettibile di sfociare in una lite (Cass., 15 maggio 2001, n. 6662 e Cass., 27 aprile 2021, n. 11106).
Un ulteriore elemento costitutivo della transazione è rappresentato dalle reciproche concessioni, da valutarsi con riferimento alle reciproche pretese e contestazioni e non già ai diritti effettivamente spettanti (Cass., 7 settembre 2005, n. 17817, in GC Mass., 2005, 9 e Cass., 7 novembre 2018, n. 28448).
Infatti, a differenza del negozio di accertamento, la transazione non ha una funzione meramente dichiarativa di una situazione giuridica preesistente ma è rivolta a modificare la disciplina del rapporto preesistente mediante reciproche concessioni tra le parti in modo che ciascuna subisca un sacrificio (Cass., 2 aprile 2019, n. 9114), fermo restando che non è necessario un equilibrio economico tra le reciproche concessioni (Cass., 28 settembre 2016, n. 19179).
In mancanza delle reciproche concessioni, non è dunque configurabile una transazione, come affermato dalla Suprema Corte con riferimento ad un caso in cui è stata cassata la sentenza di merito che aveva attribuito natura transattiva alla dichiarazione di un lavoratore di voler transigere ogni controversia connessa al rapporto di lavoro perché la somma corrispostagli dal datore di lavoro in via transattiva corrispondeva esattamente al TFR rivendicato e dovuto (Cass.,15 luglio 2015, n. 14814). Dal che, la Corte di Cassazione in quel precedente aveva fatto discendere l’inapplicabilità ai fini della impugnazione dei termini previsti dall’art. 2113 c.c., presupponendo tale norma la stipulazione di una transazione/rinunzia conforme allo schema legale.
La transazione è nulla se la res litigiosa ha ad oggetto diritti sottratti, per loro natura o per espressa disposizione di legge, alla disponibilità delle parti (art. 1966, comma 2, c.c.) (Cass., 30 settembre 2020, n. 2913) oppure se mancano la res litigiosa o le reciproche concessioni o ancora la volontà delle parti di porre fine ad una lite (Cass., 30 agosto 2017, n. 20590, in GC Mass., 2017).
Inoltre, ai sensi dell’art. 1972 c.c., è nulla la transazione relativa a un contratto illecito, ancorché le parti abbiano trattato della nullità di questo, mentre negli altri casi in cui la transazione è stata fatta relativamente a un titolo nullo, l’annullamento di essa può chiedersi solo dalla parte che ignorava la causa di nullità del titolo.
Con la sentenza del 1° marzo 2022, n. 6664 e l’ordinanza del 21 gennaio 2022, n. 1887, la Corte di Cassazione conferma il consolidato orientamento, secondo cui le rinunzie e transazioni possono riguardare esclusivamente diritti già maturati dal lavoratore, con la conseguente nullità per contrasto con norma imperativa di legge (artt. 1418, comma 2, e 1325 c.c.) se hanno ad oggetto i cd “diritti futuri” e, cioè, diritti non ancora entrati a far parte del patrimonio del lavoratore al momento del perfezionamento della rinunzia o transazione (Cass., 14 dicembre 1998, n. 12548, in GC Mass., 1998, 2580 e Cass., 13 agosto 2020, n. 17108).
Tale principio opera con riferimento a qualsiasi diritto del lavoratore ed anche in caso di rinunzie e transazioni intervenute in una delle sedi protette di cui all’art 2113, ultimo comma, c.c., trattandosi di un vizio genetico del negozio giuridico.
Nel caso oggetto della sentenza della Corte di Cassazione del 1° marzo 2022, n. 6664, le parti avevano conciliato innanzi al Giudice del Lavoro una controversia relativa alla impugnazione di un contratto a termine concordando l’assunzione del lavoratore alle dipendenze del datore con un nuovo contratto a termine a fronte della rinunzia del lavoratore ad avanzare qualsiasi pretesa in relazione a tale secondo contratto a termine. Il lavoratore alla scadenza aveva invece domandato la conversione del rapporto per superamento del termine massimo di durata di trentasei mesi, eccependo la nullità – confermata anche dalla Corte di Cassazione – della transazione per violazione degli artt. 1418, comma 2, e 1325 c.c., sul rilievo, appunto, che la stessa aveva avuto ad oggetto un diritto non ancora maturato.
Nello stesso senso, si è pronunciata la Corte di Cassazione con riferimento alle rinunzie del lavoratore (formalizzate in sede protetta nel corso del rapporto di lavoro) all’incidenza sul trattamento di fine rapporto di una certa voce retributiva (Cass., 28 maggio 2019, n. 14510, in GC Mass., 2019) ed al risarcimento dei danni ex art. 2116, comma 2, c.c. (Cass., 8 giugno 2021, n. 15947, in DRI, 2021, IV, 1172) sul rilievo che, da un lato, il TFR entra a far parte del patrimonio del lavoratore solo con la cessazione del rapporto di lavoro e, dall’altro, che il danno da omissione contributiva si determina solo con la definitiva perdita della prestazione previdenziale.
In presenza di un vizio di nullità o una causa di annullabilità (per incapacità di intendere e di volere, ex art. 1425 c.c. o per vizio del consenso ai sensi degli artt. 1427 c.c. e ss), è dunque irrilevante il fatto che la rinunzia o la transazione sia stata stipulata in una delle sedi protette previste dall’art. 2113, ultimo comma, c.c., nel senso che tale circostanza non sana la causa di invalidità e, pertanto, la parte interessata può sempre (naturalmente, nei limiti previsti dalla più generale disciplina civilistica) impugnare la rinunzia o la transazione.
Ai fini dell’applicabilità dell’art. 2113 c.c., devono ritenersi indisponibili non soltanto i diritti del lavoratore di natura retributiva o risarcitoria correlati alla lesione di diritti fondamentali della persona, ma anche quei diritti di natura retributiva che derivano da disposizioni di legge o della contrattazione collettiva non espressamente qualificate come derogabili, in quanto la tutela del lavoratore quale parte più debole del rapporto di lavoro viene disciplinata attraverso norme inderogabili, salvo espressa previsione in senso contrario Cass., 12 febbraio 2004, n. 2734, in D&G, 2004, X, 113; Cass., 12 maggio 2008, n. 11659 e Cass., 7 settembre 2021, n. 24078).
Non rientrano, invece, nel campo di applicazione dell’art. 2113 c.c. i diritti del lavoratore derivanti esclusivamente dal contratto individuale che prevedono trattamenti migliorativi rispetto a quelli di legge o di contratto collettivo (Cass., 12 ottobre 1993, n. 10089, in MGL, 1994, 180).
Con l’ordinanza del 21 gennaio 2022, n. 1887 la Corte di Cassazione, ribadisce che il lavoratore può liberamente disporre del proprio posto di lavoro, dimettendosi o astenendosi dall’impugnare il licenziamento nei termini di decadenza previsti dalla legge (Cass., 19 ottobre 2009, n. 22105, in GC Mass., 2009, X, 1461) ragion per cui l’art. 2113 c.c. non è applicabile alle rinunce e transazioni aventi ad oggetto esclusivamente la cessazione del rapporto di lavoro (Cass., sez. VIª, 18 marzo 2014, n. 6265).
Tuttavia, qualora la risoluzione del rapporto di lavoro sia stata pattuita nell’ambito di una transazione più ampia che investe anche altri diritti del prestatore di lavoro derivanti da disposizioni inderogabili di legge o dall’autonomia collettiva, la transazione è annullabile anche con riferimento alla risoluzione del rapporto, se la relativa pattuizione è strettamente interdipendente con le rinunzie relative a diritti ex art. 2113 c.c., e sempre che si tratti di rinunzie valide (Cass., 13 agosto 2009, n. 18285 e Cass., 4 settembre 2018, n. 21617).
Da ultimo, occorre ricordare il rigoroso orientamento della Corte di Cassazione secondo cui affinché un determinato atto possa avere valore di transazione o di rinunzia, è necessario che dallo stesso risulti la consapevolezza del lavoratore di rinunziare a determinati diritti e l’intento di abdicarvi o di transigere sui medesimi.
Ne consegue che le dichiarazioni del lavoratore di generica rinuncia a diritti, senza specifico riferimento alle voci retributive, sono clausole di stile e insufficienti a configurare l’effettiva sussistenza di una cosciente volontà dispositiva e di una reale consapevolezza di diritti determinati oppure obiettivamente determinabili oggetto dell’atto dispositivo dell’interessato.
In particolare, la giurisprudenza è granitica nell’affermare che non integra una rinunzia né manifestazione di volontà abdicativa di un determinato diritto ai fini transattivi la generica dichiarazione del lavoratore “di non aver più nulla a pretendere dal datore di lavoro in relazione al pregresso rapporto di lavoro”, integrando la stessa (anche se formalizzata in sede protetta) una semplice manifestazione del convincimento dell’interessato di essere stato soddisfatto di tutti i suoi diritti e, quindi, una dichiarazione di scienza priva di ogni efficacia negoziale che in quanto tale non preclude al lavoratore di far valere determinati diritti nei confronti del datore di lavoro.
Ciò a meno che non si possa comunque desumere – ad esempio, da specifiche rivendicazioni avanzate dall’interessato prima di rendere quella dichiarazione generica – che il lavoratore abbia avuto, nel rilasciarla, «la chiara consapevolezza degli specifici diritti determinati, o almeno obiettivamente determinabili, che gli sarebbero spettati e ai quali, appunto, egli abbia coscientemente inteso rinunciare totalmente o parzialmente”, ragion per cui solo in tal caso una simile generica dichiarazione potrebbe assumere il valore di rinuncia o transazione (v. in particolare Cass., 18 settembre 2019, n. 23296; Cass., 7 novembre 2018, n. 28448; Cass., 19 settembre 2016, n. 18321; Cass., 2 maggio 2016, n. 8606; Cass., 15 settembre 2015, n. 1809; Cass., 13 giugno 1998, n. 5930, in D&L, 1998, 1003).
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