Cassazione n. 28923/2021: reintegra del lavoratore e trasferimento ad altra sede
di S. Galleano -
1. La fattispecie oggetto della sentenza
Il lavoratore viene reintegrato dal giudice a seguito di un licenziamento o il suo rapporto viene ricostituito una volta accertata l’illegittimità del termine apposto al contratto e il datore lo deve quindi riammettere al lavoro.
In questo caso al dipendente, che aveva operato a termine in provincia di Foggia, viene data indicazione di prendere servizio in provincia di Mantova, asserendo il datore la mancanza di disponibilità di posizioni lavorative nell’unità di precedente adibizione o in altra più vicina.
Il lavoratore contesta per iscritto la modifica del nuovo luogo di lavoro e si rivolge nel frattempo al giudice che dichiara illegittimo l’operato mutamento di sede, con decisione confermata in sede di appello.
Terminato un periodo di malattia, il dipendente non si presenta nel luogo indicato dal datore di lavoro, comunicandogli contestualmente la sua disponibilità a prendere servizio nella sede di originaria adibizione.
Il datore, decorso circa un mese dal rifiuto, licenzia il lavoratore per assenza ingiustificata.
Il Tribunale di Foggia, investito del ricorso avverso il licenziamento, lo dichiara illegittimo con ordine di reintegrazione e di risarcimento del danno escludendo che la fattispecie sia riconducibile alla previsione del ccnl che prevede il recesso in caso di «assenza arbitraria».
La Corte di appello di Bari conferma la sentenza di primo grado.
Il ricorso per cassazione si incentra sulla non ricorrenza di una legittima eccezione di inadempimento ex art. 1460 c.c., ritenuta sussistere dai giudici di merito e, in subordine, e sulla inapplicabilità della reintegrazione, dovendosi applicare unicamente la tutela economica ai sensi della novella introdotta nell’art. 18 Statuto.
2. I principi sull’esecuzione dell’obbligo di reintegrazione del lavoratore
La giurisprudenza si è più volte pronunciata sulla modalità con le quali il datore di lavoro deve ottemperare all’ordine di reintegra o ricostituzione del rapporto, affermando che la riammissione «implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo precedente e nelle mansioni precedentemente svolte» (Trib. Busto Arsizio, 2 febbraio 2021; conforme: Cass., ordinanza 20 maggio 2020, n. 9297).
Tale principio è stato temperato dalla precisazione secondo la quale il trasferimento è invece legittimo «sempre che il mutamento della sede sia giustificato da sufficienti ragioni tecniche, organizzative e produttive; fermo restando che, ove sia contestata la legittimità del trasferimento, il datore di lavoro ha l’onere di allegare e provare in giudizio le fondate ragioni che lo hanno determinato e, se può integrare o modificare la motivazione eventualmente enunciata nel provvedimento, non può limitarsi a negare la sussistenza dei motivi di illegittimità oggetto di allegazione e richiesta probatoria della controparte, ma deve comunque provare le reali ragioni tecniche, organizzative e produttive che giustificano il provvedimento (vedi Cass., 9 agosto 2013, n. 19095 cui adde Cass., 14luglio 2016, n. 14375)».
La cassazione, con sentenza n. 11927/2013 ha così chiarito: «Orbene, la giurisprudenza di questa Corte è costante nel ritenere che la ottemperanza del datore di lavoro all’ordine giudiziale di riammissione in servizio a seguito di accertamento della nullità dell’apposizione di un termine al contratto di lavoro implica il ripristino della posizione di lavoro del dipendente, il cui reinserimento nell’attività lavorativa deve quindi avvenire nel luogo e nelle mansioni originarie, atteso che il rapporto contrattuale si intende come mai cessato e quindi la continuità dello stesso implica che la prestazione deve persistere nella medesima sede» (Cass. n. 11180/2019 e Cass.n. 434/2019, citate nella sentenza commentata; v. anche Cass., 28 settembre 2018, n. 23595).
3. L’eccezione di inadempimento
La Corte, ribaditi tali principi, esamina il comportamento delle parti durante la vicenda.
Nella motivazione si parte infatti dal presupposto che non sempre il trasferimento adottato dal datore in violazione dell’art. 2103 c.c. legittimi in modo automatico la sospensione da parte del lavoratore dell’attività lavorativa, poiché l’applicazione dell’art. 1460, comma 2, c.c., che consente alla parte di sospendere a sua volta la controprestazione corrispettiva, è possibile solo laddove «tale rifiuto, avuto riguardo alle circostanze concrete, non risulti contrario alla buona fede e sia accompagnato da una seria ed effettiva disponibilità a prestare servizio presso la sede originaria, con valutazione rimessa al giudice di merito, incensurabile in sede di legittimità se espressa con motivazione adeguata ed immune da vizi logico-giuridici (Cass. n. 434/2019)».
Nel caso specifico la Corte desume la correttezza della valutazione del giudice di merito alla ricorrenza in concreto delle caratteristiche richieste sulla scorta delle seguenti circostanze di fatto:
l’illegittimità del trasferimento era già stata accertata dalla stessa Corte d’appello di Bari con precedente pronuncia;
nel caso specifico, come si legge nella sentenza in commento, il datore di lavoro era anche vincolato da specifiche obbligazioni nascenti dalla normativa contrattuale (art. 40 ccnl applicabile nel settore postale), la quale dispone che il datore di lavoro è tenuto a «trovare, in caso di eccedentarietà della sede di provenienza del datore riassunto, un posto di lavoro il più prossimo a quello ove era stata svolta la prestazione, aggiungendo, dunque, una condizione più gravosa al requisito di validità del trasferimento come previsto dall’art. 2103 c.c.»;
il comportamento della lavoratrice era stato contrattualmente corretto, avendo provveduto, appena comunicato il mutamento di sede e prima dell’insorgenza dello stato di malattia, a contestare l’operato trasferimento e la sua disponibilità a prestare la sua attività presso la sede di provenienza, così adottando «in concreto, un comportamento un comportamento improntato a buona fede, segnalando “formalmente e tempestivamente ante causam” l’illegittimità del trasferimento»
Sulla base di tali dati di fatto, la Corte ritiene quindi che il trasferimento di sede, ove non adeguatamente giustificato ai sensi dell’art. 2113 c.c. (nel testo precedente alla riforma del 2015) e adottato in violazione delle intese in sede di contrattazione collettiva, si presenta come nullo, così integrando un inadempimento parziale alle obbligazioni nascenti dal rapporto di lavoro in capo al datore che giustificano pienamente il rifiuto del prestatore dal rendere la propria opera. Ciò in base al disposto di cui all’art. 1460 n. 2 c.c. (inadimplendi non est adimplendum) e per il principio che gli atti nulli non producono effetti (la sentenza cita il precedente di cui alla sentenza 22656/2018, non a caso resa in un giudizio nel quale era parte sempre lo stesso datore di lavoro, dove si richiamano ulteriori precedenti conformi).
4. Gli alti punti della sentenza.
La Corte non esamina il terzo motivo (come si è detto quello nel quale si lamentava l’applicazione della tutela reintegratoria in luogo di quella meramente risarcitoria, giusta la riforma Fornero nel frattempo intervenuta).
Qui va comunque ricordato che la Cassazione ormai da tempo è sulla linea del riconoscimento che la insussistenza del fatto materiale va inteso come mancanza di rilevanza giuridica del fatto e tanto è più vero, nel caso esaminato dove, come si è visto, la reazione del lavoratore è ritenuta legittima a fronte di un atto radicalmente nullo a fronte del quale l’ordinamento ritiene legittima la reazione del lavoratore.
5. Conclusioni.
La sentenza in commento pare più che corretta definendo un percorso giurisprudenziale ormai consolidato nella giurisprudenza di legittimità.
Merita semmai segnalare la particolarità della sentenza 29007 del 2020 che interpreta invece un caso particolare, ma che presenta analogie con quello qui commentato, inquadrandolo però nello schema del contratto in frode alla legge ai sensi dell’art. 1344 c.c.
In quel caso il lavoratore reintegrato a seguito della ritenuta nullità del licenziamento era stato trasferito in altra unità produttiva nella quale era già prevista l’attivazione di un licenziamento collettivo in ragione di un’eccedenza di personale.
Evidente l’intenzionalità del datore di lavoro di creare una situazione che, formalmente, giustificasse una nuova espulsione del lavoratore sgradito con una diversa motivazione.
Il successivo licenziamento è così stato dichiarato nullo e la Cassazione ha ritenuto l’irrilevanza del carattere unilaterale del negozio giuridico costituito dal licenziamento a fini della realizzazione della fattispecie di frode alla legge.
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