Orgoglio e pregiudizio. Le dichiarazioni pubbliche omofobe, gravemente discriminatorie, e la libertà di manifestazione del pensiero. Il caso è chiuso.
di V. A. Poso -
“La Zanzara”, Radio 24, trasmissione del 16 ottobre 2013.
Giuseppe Cruciani e David Parenzo hanno come ospite un noto avvocato, professore e politico, che rende, incalzato anche dai giornalisti, alcune affermazioni relative all’omosessualità, quali: «Se la tenga lei l’omosessualità, io non ne ho alcune, né simpatia, né antipatia, non me ne frega niente, l’importante è che non mi stiano intorno»… «Mi danno fastidio…» Alla replica di uno dei conduttori: «Ma lei è circondato da omosessuali, lei purtroppo è circondato, purtroppo per lei, perché la quota di popolazione è sempre quella», l’ospite risponde: «Intanto io ad esempio nel mio studio faccio una cernita adeguata in modo tale che questo non accada».
Il conduttore lo incalza: «Cioè, non ho capito, lei, se uno è omosessuale, non lo assume nel suo studio?» e l’ospite risponde: «Ah sicuramente no, sicuramente no».
E all’affermazione del conduttore: «Ma professore, questa è discriminazione, è discriminazione questa roba qua», l’ospite replica: «Beh, vabbè sarà discriminazione, a me non me ne frega niente».
Nel prosieguo della conversazione l’avvocato ribadisce di non volere persone omosessuali all’interno del proprio studio professionale.
Cruciani: «Ognuno stia a casa sua, d’accordo, ma uno che vuole lavorare da lei, lei non può mettere il paletto “non deve essere frocio”»; l’ospite risponde: «No, no, io metto questo paletto sì».
Ed ancora Parenzo: «arriva nell’ufficio del prof. XX un signore, chi è? sono Francesco, prego avanti, salve sono laureato a Yale, sono il miglior avvocato su piazza però sono omosessuale, che dice XX, non lo prende, il miglior avvocato del mondo?».
XX: «Perché lo devo prendere, faccia l’avvocato se è così bravo e così, diciamo, così capace di fare l’avvocato si apra un bello studio per conto suo e si fa la professione dove meglio crede. Da me non… mi dispiace turberebbe l’ambiente, sarebbe una situazione di grande difficoltà».
Questi sono i fatti che risultano dagli atti di causa in base ai quali, su ricorso ex art. 28, d.lgs. n. 150/2011 e art. 702 bis c.p.c. presentato dall’Associazione Avvocati per i Diritti LGBTI – Rete Lenford, il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica e in funzione di giudice del lavoro, con l’ordinanza in data 6 agosto 2014, ha riconosciuto il carattere discriminatorio delle dichiarazioni pubbliche rese dall’avvocato convenuto nel senso di non assumere nel proprio studio professionale persone omosessuali, trattandosi di espressioni idonee a dissuadere i soggetti interessati dal presentare le proprie candidature allo studio professionale e quindi atte ad ostacolare l’accesso al lavoro o a renderlo maggiormente difficoltoso, condannandolo al risarcimento dei danni in misura pari alla somma di euro 10.000,00 e alla pubblicazione di un estratto del provvedimento su alcuni quotidiani, in forma idonea a renderne adeguata pubblicità.
L’ordinanza del Tribunale bergamasco è stata confermata dalla Corte di Appello di Brescia, sez.lav 23 gennaio 2015, n. 529 e dalla Corte di Cassazione, sez. I, 15 dicembre 2020, n. 28646 che ha deciso la controversia dopo il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, investita con la sua ordinanza interlocutoria 20 luglio 2018, n. 19443.
Questo il responso della Corte di Giustizia che si è pronunciata, con sentenza della Grande Sezione, 23 aprile 2020, C-507/18, sulle due questioni interpretative pregiudiziali sollevate:
«1) La nozione di «condizioni di acceso all’occupazione e al lavoro» contenuta all’articolo 3, paragrafo 1, lettera a), della direttiva 2000/78/CE del Consiglio, del 27 novembre 2000, che stabilisce un quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, deve essere interpretata nel senso che in essa rientrano delle dichiarazioni rese da una persona nel corso di una trasmissione audiovisiva secondo le quali tale persona mai assumerebbe o vorrebbe avvalersi, nella propria impresa, della collaborazione di persone di un determinato orientamento sessuale, e ciò sebbene non fosse in corso o programmata una procedura di selezione di personale, purché il collegamento tra dette dichiarazioni e le condizioni di accesso all’occupazione e al lavoro in seno a tale impresa non sia ipotetico.
2) La direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa non osta ad una normativa nazionale in virtù della quale un’associazione di avvocati, la cui finalità statutaria consista nel difendere in giudizio le persone aventi segnatamente un determinato orientamento sessuale e nel promuovere la cultura e il rispetto dei diritti di tale categoria di persone, sia, in ragione di tale finalità e indipendentemente dall’eventuale scopo di lucro dell’associazione stessa, automaticamente legittimata ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva summenzionata e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno, nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, ai sensi di detta direttiva, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa».
La questione interpretativa, quindi, si è trasferita sul versante del diritto nazionale, essendo state ritenute ammissibili entrambe le soluzioni (la decisione adottata non era affatto scontata) e questo è, sul punto centrale della controversia, il principio di diritto affermato dalla Corte di Cassazione: «In tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro, l’art. 5, comma 2, del d.lgs. 9/7/2003 n.216, come modificato dall’articolo 8-septies del d. I. 8/4/2008, n. 59, convertito con modificazioni nella legge 6/6/2008, n. 101, costituisce esplicazione della facoltà riconosciuta agli Stati membri dall’art.8 della direttiva 2000/78 di concedere una tutela più incisiva di diritto nazionale rispetto agli atti discriminatori in ambito lavorativo, attribuendo – nel caso in cui si verifichino fatti idonei a costituire una discriminazione, nei confronti della citata categoria di persone e non sia identificabile una persona lesa – la legittimazione attiva ad avviare un procedimento giurisdizionale inteso a far rispettare gli obblighi risultanti dalla direttiva e, eventualmente, ad ottenere il risarcimento del danno a un’associazione che sia rappresentativa del diritto o dell’interesse leso. Il requisito della rappresentatività dell’ente, per il quale non è stabilito alcun controllo preventivo, deve essere verificato dal giudice del merito sulla base dell’esame del suo statuto, che deve contemplare la previsione univoca del perseguimento della finalità di tutela dell’interesse collettivo assunto a scopo dell’ente, e del suo concreto operato, con un accertamento fattuale che è insindacabile in sede di legittimità, se non per vizio della motivazione nei limiti consentiti dall’art.360, comma 1, n.5, cod. proc. civ.».
La Corte di Cassazione, inoltre, fa proprio il ragionamento logico seguito dalla Corte territoriale sulla libertà di manifestare il proprio pensiero con qualsiasi mezzo di diffusione, garantita dall’art. 21, Cost., che non ha natura di diritto assoluto e pertanto non può spingersi sino a violare altri principi costituzionalmente tutelati, quali, nella specie, gli artt. 2, 3, 4 e 35 Cost. che tutelano la parità di trattamento in materia di occupazione e di lavoro e la realizzazione di un elevato livello di occupazione e di protezione sociale, sul punto richiamando anche la giurisprudenza della Corte di Giustizia e della Corte Costituzionale.
Restano sullo sfondo alcune questioni affrontate dalla S.C. (per rispondere al fuoco di fila di eccezioni sollevate dal ricorrente) di sicuro interesse per il lettore che meritano essere segnalate: le regole e il perimetro del rito sommario di cognizione ex art. 702 bis e ss. c.p.c. con il quale è stato introdotto il procedimento; le problematiche conseguenti all’assegnazione della causa in base ai criteri tabellari che individuano il giudice monocratico competente quale quello del lavoro, senza che ciò comporti l’applicazione dello speciale rito del lavoro; la determinazione equitativa del danno e i criteri per la quantificazione del suo risarcimento; la funzione sanzionatoria della responsabilità civile.
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