Il licenziamento per inidoneità sopravvenuta: una fattispecie complessa.
di M. Turrin -
La sentenza che ci si accinge a commentare (Cass., 16 luglio 2019, n. 19025) ha offerto alla Suprema Corte la possibilità di confrontarsi ancora una volta con la tematica del licenziamento per inidoneità sopravvenuta, nonché l’opportunità di fornire alcune indicazioni utili a riguardo.
La pronuncia merita infatti di essere segnalata perché il Giudice di legittimità ha ritenuto che nel caso di specie l’invalidità e la sopravvenuta inidoneità fisica della lavoratrice non fossero tali da integrare la condizione di handicap ai sensi del diritto antidiscriminatorio (d.lgs. 9 luglio 2003, n. 216, di attuazione della dir. 2000/78/CE, così come interpretata dalla Corte di Giustizia dell’Unione europea alla luce della Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità), dovendo essere verificata la sussistenza di tale condizione caso per caso. In altre parole, laddove ve ne fosse stato bisogno, il Collegio ha chiarito che la sussistenza di una sopravvenuta inidoneità fisica non determina di per sé l’attribuzione dello status di persona con handicap, consistendo tale condizione in «una limitazione, risultante in particolare da menomazioni fisiche, mentali o psichiche durature, che, in interazione con barriere di diversa natura, può ostacolare la piena ed effettiva partecipazione dell’interessato alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori» (C. Giust., 11 aprile 2013, causa C-335/11, HK Danmark, punto 38 della motivazione, in DPL, 2013, 26, 1692).
Peraltro, il mancato riconoscimento di questo status non è privo di ripercussioni nel contesto del quale si sta discutendo. Infatti, secondo la più recente giurisprudenza di Cassazione (Cass., 19 marzo 2018, n. 6798, in RIDL, 2019, 2, 161, con nota di Aimo), qualora il licenziamento per inidoneità sopravvenuta sia derivante da una condizione di handicap, il datore di lavoro, prima di procedere al recesso, oltre all’obbligo di repêchage, è chiamato altresì a verificare la possibilità di predisporre degli accomodamenti ragionevoli nei luoghi di lavoro, ovverosia dei «provvedimenti appropriati, in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo o di avere una promozione o perché possano ricevere una formazione» (così l’art. 5 della dir. 2000/78/CE).
Accertato che nel caso di specie il datore di lavoro non avesse l’obbligo di adottare delle soluzioni ragionevoli, la Corte ha poi constatato come sia ormai principio consolidato quello secondo cui, in caso di sopravvenuta inidoneità fisica, l’impossibilità della prestazione lavorativa quale giustificato motivo di recesso non possa farsi derivare dalla sola incapacità del prestatore di svolgere l’attività alla quale è adibito in un dato momento, potendo il datore di lavoro evitarla adibendo il lavoratore ad una diversa attività, che sia riconducibile alle mansioni attualmente assegnate o a mansioni equivalenti (nella controversia de qua era applicabile ratione temporis l’art. 2103 c.c. nella sua formulazione antecedente alle modifiche apportate dal d.lgs. 15 giugno 2015, n. 81), oppure – laddove ciò non sia possibile – anche a mansioni inferiori, purché tale diversa attività sia utilizzabile nell’impresa secondo l’assetto organizzativo stabilito dall’imprenditore (Cass., sez. un., 7 agosto 1998, n. 7755, in GC, 1998, 10, 2451, con nota di Giacalone). Il Collegio ha quindi rammentato come, secondo la più recente giurisprudenza di legittimità, l’esistenza di una tale posizione lavorativa costituisce onere di allegazione e prova del datore di lavoro (Cass., 22 marzo 2016, n. 5592, in GI, 2016, 5, 1164, con nota di Persiani).
Ebbene, accogliendo il quarto ed il quinto motivo di ricorso della lavoratrice, la Corte ha rilevato come la sentenza impugnata, pur rifacendosi ai principi di diritto appena richiamati, li abbia in verità disattesi nell’accertamento in fatto concretamente operato, avendo mancato di verificare se il datore di lavoro avrebbe potuto adibire la ricorrente ad attività e mansioni diverse rispetto a quelle effettivamente svolte da quest’ultima. Pertanto, la Corte d’appello di Bologna, autrice della sentenza cassata, sarà ora chiamata ad accertare ancora una volta e con maggior scrupolo se l’obbligo di repêchage sia stato pienamente assolto o meno.
Con riguardo alle tutele di cui potrebbe godere la lavoratrice nel qual caso il giudice di secondo grado accerti che il datore di lavoro avrebbe potuto adibire la ricorrente ad una diversa posizione lavorativa, occorre ricordare come nel contesto del recesso per giustificato motivo oggettivo (d’ora in poi g.m.o.) consistente nell’inidoneità fisica o psichica del lavoratore, diversamente dal licenziamento per g.m.o. di tipo “economico” (Cass., 2 maggio 2018, n. 10435, in DRI, 2018, 3, 935, con nota di Santini), il mancato assolvimento dell’obbligo di repêchage dia sempre luogo alla cd. tutela reintegratoria attenuata di cui all’art. 18, comma 4, legge 20 maggio 1970, n. 300 (applicabile ratione temporis alla controversia de qua), non essendoci spazi per una soluzione di tipo indennitaria, sia perché in questa ipotesi il giudice non gode di alcuna discrezionalità, sia perché il repêchage costituisce un elemento indefettibile di questa fattispecie sui generis di licenziamento per g.m.o. (Cass., 12 dicembre 2018, n. 32158, in RIDL, 2019, 2, 264, con nota di Valenti).
Ciò detto, va infine segnalato come tanto in dottrina quanto in giurisprudenza si discuta della corretta qualificazione da attribuire al licenziamento illegittimo per inidoneità sopravvenuta, se cioè vada qualificato come ingiustificato, come sembra dare per scontato la giurisprudenza di legittimità (Cass., 12 dicembre 2018, n. 32158, cit.), ovvero se debba essere considerato discriminatorio per disabilità, come iniziano ad affermare alcuni giudici di merito (Trib. Pisa, 16 aprile 2015, in ADL, 2016, 1, 164, con nota di Cangemi; Trib. Asti, 23 luglio 2018 e Trib. Roma, 8 maggio 2018, entrambe in RGL, 2019, 2, 283, con nota di Bono), con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano probatorio e su quello delle tutele applicabili. Ad opinione di chi scrive, l’una non esclude l’altra: lo stesso art. 18, comma 7, legge n. 300/1970 dispone che «qualora, nel corso del giudizio, sulla base della domanda formulata dal lavoratore, il licenziamento risulti determinato da ragioni discriminatorie o disciplinari, trovano applicazione le relative tutele previste dal presente articolo». Peraltro, benché se ne discuta solo con riguardo ad ipotesi di licenziamento per inidoneità sopravvenuta derivanti da una condizione di handicap, il dibattito potrebbe interessare anche casi come quello di specie, in quanto il divieto di discriminazione di cui alla dir. 2000/78/CE trova applicazione a prescindere dal fatto che il soggetto discriminato sia effettivamente portatore del fattore di rischio, richiedendo soltanto che vi sia un collegamento tra il trattamento assunto come meno favorevole subito dal lavoratore ed il fattore protetto (C. Giust., 17 luglio 2008, causa C-303/06, Coleman, in CG, 2008, 12, 1768). Da ultimo, si osservi come tale querelle riguardi soltanto i lavoratori cui si applica l’art. 18 dello Statuto dei Lavoratori e non quelli assunti con il cd. contratto a tutele crescenti, avendo l’art. 2, comma 4, d.lgs. 4 marzo 2015, n. 23 espressamente previsto l’applicazione della cd. tutela reintegratoria piena «nelle ipotesi in cui il giudice accerta il difetto di giustificazione per motivo consistente nella disabilità fisica o psichica del lavoratore».
Matteo Turrin, dottorando di ricerca nell’Università degli Studi di Padova
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